Centro studi Piero Gobetti

Rassegna stampa



La Stampa, 26-08-2003


Gli entusiasmi, la formazione, le battaglie del giovane intellettuale:
quasi una biografia attraverso le lettere nel volume
in uscita da Einaudi

Una vita attraverso le lettere. Aspettandone la biografia (impresa che tentò, lasciandola incompiuta, Umberto Morra), Piero Gobetti si svela (si forma, documenta la sua formazione) scrivendo, fra gli altri, a Benedetto Croce e a Giuseppe Prezzolini, a Natalino Sapegno e ad Alessandro Passerin d’Entrèves, a Giovanni Ansaldo e a Luigi Albertini, a Gaetano Salvemini e a Giovanni Gentile. Un fiotto di missive, le prime 403 (271 di Gobetti) pubblicate ora da Einaudi (pp. 550, e 65, a cura egregia di Ersilia Alessandrone Perona, in appendice una scelta di testi gobettiani e le biografie dei corrispondenti). Seguiranno altri tre volumi, che andranno ad arricchire lo scaffale allestito dall’editore torinese (eco naturale del gobettiano «editore ideale»: «Penso un editore come un creatore») per accogliere l’opera del prodigioso intellettuale, scomparso neanche venticinquenne a Parigi, esule, nel 1926. (A sé il carteggio Piero-Ada Gobetti, uscito da Einaudi nel 1991, a cura, anch’esso, di Ersilia Alessandrone Perona).

Una volontà inesorabile

Dal 1918 al 1922: sono gli anni fin qui abbracciati dall’epistolario. Quattro dei sette di vita pubblica di Piero Gobetti. Una breve esistenza eppure intensissima, sorretta da «una volontà inesorabile», che calamita alcuni versi di Montale (Montale che nel 1925 vedrà accolti i suoi Ossi di seppia nelle Edizioni Piero Gobetti): «... invoco / per essi i miei morti, ndr non resurrezione ma / il compiersi di quella vita ch’ebbero / inesplicata e inesplicabile»).

Che cosa sarebbe diventato Gobetti? Se lo chiedeva, sulle «dignitose colline» di Pavarolo, nell’immediato secondo dopoguerra, Felice Casorati, il pittore di Silvana Cenni legato da tenace amicizia alla straordinaria figura: «In quest’Italia vinta, dilaniata e prostrata, nave senza nocchiero in gran tempesta, non sarebbe stato egli forse il nocchiero?». Dopo essere stato il protoavversario di Mussolini e del mussolinismo, dopo essere stato riconosciuto (Guglielmo Alberti) come il «Resistente n. 1». Sempre, nelle stagioni, ornato di un’aureola messianica. Sin da quando, commemorandolo a un mese dalla scomparsa, Augusto Monti, che in lui riconobbe lo scolaro-maestro, lo paraganova al nomoteta di Sparta: «Firmata la Costituzione della sua patria, era partito per un lungo viaggio raccomandando di nulla mutare di quello statuto finché lui non fosse tornato... Noi non avevamo visto morire Piero Gobetti; per noi era soltanto partito...».

Dagli adolescenziali, stendhaliani entusiasmi, alla disillusione. Esordisce il 22 ottobre 1918, l’epistolario. A Lionello Fiumi (poeta che esaltava il verso libero) Gobetti annuncia l’imminente varo della rivista Energie Nove, obiettivo: «destare movimento d’idee e divulgare pensieri». (Già a Ada Prospero, sposata nel 1923, aveva rivelato l’intenzione di «destare movimenti d’idee in questa stanca Torino», che diverrà «saracena» in una lettera del 1919 a Giovanni Papini: «... Energie Nove la modesta rivista di rinnovamento che vado imponendo in questa saracena Torino» - terreno vergine o quasi il rapporto fra Gobetti e Torino, ovvero Gobetti sarebbe stato Gobetti in un diverso mondo?). Si conclude nel dicembre del 1922 questa storia postale, firma l’ultimo documento Ardengo Soffici, l’artista, critico d’arte, scrittore che ci conduce nella Firenze delle riviste (La Voce e L’Unità) con cui Gobetti farà i conti, ormai - Soffici - approdato nell’altra Italia: «Lei tratta Mussolini come uno dei soliti politicanti, mentre egli è il solo uomo capace di dare all’Italia un governo degno dei tempi». (Poche settimane avanti, dopo la Marcia su Roma, sulla Rivoluzione Liberale, la sua seconda rivista, a cui seguirà Il Baretti, Gobetti non aveva esitato: «Resteremo al nostro posto di critici sereni con un’esperienza in più. Attendiamo senza incertezze, sia che dobbiamo assistere alle burlette democratiche, sia che dobbiamo subire le persecuzioni che ci spettano»).

Dal 1918 al 1922. Torino laboratorio d’Italia, un evento su tutti: l’occupazione delle fabbriche («Mi par di vedere che a poco a poco si chiarisca e si imposti la più grande battaglia ideale del secolo»). Gobetti scruta, legge, studia, si schiera, modella un singolare connubio fra politica e cultura. Individuando in Gramsci e nell’Ordine Nuovo - il settimanale fondato il 1° maggio 1919, Gobetti ne diverrà il «critico drammatico» - gli interlocutori privilegiati. Addirittura anticipando - una sorta di affinità elettiva fra le righe identificata da Ersilia Alessandrone Perona - la formula ordine nuovo nella lettera (11 marzo 1919) a Santino Caramella, filosofo genovese: «A noi spetta in questo mentre lavorare per metterci in grado di portare un ordine nuovo, se si rovescierà il disordine attuale. Perché la rivoluzione non sia solo teppismo» (i moti sotto la Mole terminata la Grande Guerra). Nel paragrafo precedente aveva reso omaggio alla salveminiana Unità: «Intorno all’Unità c’è la parte più intelligente della nazione. C’è quella tendenza liberale, concreta, cavouriana che è necessario che prevalga se si vuol evitare la rivoluzione». Beninteso la rivoluzione intesa come teppismo.

Dante e Leopardi i due poeti miei

Il magistero salveminiano, il biennio rosso, la crisi di Energie Nove (nel frattempo il matrimonio e il servizio militare), l’intermezzo che genererà La Rivoluzione Liberale» (il primo numero apparve il 12 febbraio 1922): liberale la rivoluzione che libera energie nuove, liberale quindi, secondo Gobetti, la rivoluzione russa (e ogni rivoluzione che scateni forze popolari), rivoluzione mancata il Risorgimento (il «soliloquio» di un demiurgo, Cavour, non un coro, non «un’unità di popolo»), rivoluzione liberale l’occupazione delle fabbriche. Ancora a Santino Caramella, nel 1920: «... mi pare che il movimento operaio debba andare (e va infatti) per una via sua che si crea ogni giorno ... ma il punto d’arrivo è sempre liberalismo, storia». Liberale, Gobetti, di un liberalismo radicale (se il fascismo è l’autobiografia della nazione, se non è una malattia passeggera, occorrerà aggredire il male alle radici, sradicarlo). Antisocialista (antituratiano) perché antistatalista (è un allievo di Luigi Einaudi). Non marxista. «Anticomunista, perché antiastrattista». In primis, educatore («Io ho per la politica interesse di studioso - spiega a Caramella -. Non ho mirato mai all’azione come tale; ma sempre ad una educazione politica». E a Sapegno: «Scegliamo di agire oggi perché nell’incertezza disgregativa presente abbiamo bisogno di nuclei di concentramento non più di divulgazione, ma di alta cultura, di vera e propria formazione di classe dirigente». Ecco l’imperativo: la formazione di una classe dirigente: «Dovrà ineluttabilmente l’Italia rimanere condannata dalla sua inferiorità economica a questi costumi anacronistici e cortigiani? O le forze della nuova iniziativa popolare e di ceti dirigenti incompromessi riusciranno a dare il tono alla nostra storia?». Una speranza non vacua (Gobetti si considerava un «disperato lucido», un «profeta disarmato») perché germinata a Torino, la città che sale, «la città per eccellenza dell’industria», di quel movimento operaio e di quel solitario eroe del capitalismo che fu Giovanni Agnelli. Il noviziato di Gobetti avviene all’insegna di una ferrea disciplina. Non mancano, nel carteggio, le orme di un’alfieriana ascesi (Alfieri, l’eroe della libertà approfondito nella tesi di laurea). È un solitario, Piero Gobetti («Nella solitudine sempre si tempra la mia coscienza morale»: a Barbara Allason), non fonderà un partito, il partito a lui più vicino, il partito d’azione, partito d’intellettuali, sarà così poco partito, e così poco durerà. A Gobetti, cultore di Leopardi («Dante e Leopardi, i due poeti miei»: a Natalino Sapegno), s’intona il canto All’Italia: «Io solo combatterò, procomberò sol io». Testimonierà Prezzolini: «Il suo volto, da vivo, e dopo, non escirà mai dalla mia memoria. Somigliava, quando riposò con la coltre fino al mento, al volto del Leopardi».

Bruno Quaranta




|rassegna stampa|