Centro studi Piero Gobetti

Rassegna stampa



La Stampa, martedì 4 febbraio 2003



RIFLESSIONI AUTOCRITICHE SULL´EREDITÀ GOBETTIANA IN UNA
CONVERSAZIONE CHE PUBBLICA LA RIVISTA «MICROMEGA»

Vittorio Foa: perché non basta dire no

«L'essere antifascisti presentava il rischio di farsi determinare dal fascismo»

L´influenza di Gobetti a Torino è stata molto forte. Ma quanto ai suoi effetti mi sono venuti dei dubbi, che mi hanno anche creato qualche problema con i giovani gobettiani di Torino. Noi abbiamo preso da Gobetti alcune cose. Tra queste c'è l'intransigenza, quella che lui cercava in Vittorio Alfieri e che ha sempre praticato nella sua vita di scrittore, di giornalista e di editore. Gobetti è stato un grande editore e anche nel suo modo di fare l'editore invitava a parlare e a esprimersi in un continuo richiamo alla libertà e ai doveri che la libertà pone. Noi sentivamo fortemente il suo disprezzo per l'opportunismo e la piccineria, e penso, ad esempio, che questo abbia avuto una grossa influenza su di me personalmente. Noi questo disprezzo lo avevamo interiorizzato ed è diventato l'imperativo di salvaguardare la «dignità del ruolo». Il nostro ruolo di oppositori era la testimonianza, che richiedeva una certa dignità, l'impossibilità di dire e fare cose meschine o volgari. Nelle mie lettere dal carcere c'è una vicenda, per la quale mi arrabbiai moltissimo: una ragazzina aveva fatto per me una domanda di grazia al Duce. Io ignoravo del tutto la cosa, anche perché con quella ragazzina non avevo alcun rapporto. La domanda mi venne portata dall'Ovra in cella: quando lessi quel foglio, ci scrissi sopra un bel no, sottolineandolo tre volte. Nei documenti dell'Ovra è detto che il condannato ha rifiutato di aderire alla domanda. Ecco: questo rifiuto deve molto all'esempio gobettiano.

L'essere antifascisti, però, allora, presentava davvero il rischio di farsi determinare dal fascismo, nel senso che se io dico semplicemente di no, finisco con l'essere determinato da ciò che nego. Ed è appunto quello che accadeva all'antifascismo propagandistico. Quando abbandonavamo il facile linguaggio della propaganda, capivamo che, ci piacesse o meno, nel fascismo c'era lo Stato italiano e che quindi non potevamo disfarcene semplicemente negandolo. Dovevamo sforzarci di vedere che cosa era in sé il fascismo, non solo quello di cui il fascismo era la negazione. Allora, l'essere antifascisti voleva dire esserlo criticamente, significava capire i risvolti «attivi» e «affermativi» che c'erano nel fascismo e nel paese che si era evoluto in senso fascista, senza illuderci che il fascismo si fosse semplicemente imposto e sovrapposto ad una presunta anima democratica dell'Italia. La scelta di campo antifascista ti coinvolgeva al punto che alle volte avevi il timore di essere intellettualmente zoppo, incapace di analisi critica, perché il coinvolgimento morale e politico era troppo assorbente rispetto a ogni altra cosa. Io ho provato spesso questo timore. Invece, se penso a Levi e a Ginzburg, che erano intransigenti quanto me, non vedo nulla di cieco o di acritico nella loro intransigenza.

Da Gobetti, oltre all'intransigenza, abbiamo preso altre due cose che, però, alla lunga avrebbero segnato la nostra sconfitta politica. Una era la convinzione che il socialismo storico fosse morto. Noi abbiamo creduto che fra riformisti, rivoluzionari e massimalisti quell'esperienza fosse finita. In Gobetti era fortissima la convinzione, che oggi viene tenuta un po' in ombra dai suoi storici, che l'unico vero socialismo fosse il comunismo sovietico. L'altra cosa che abbiamo preso da lui era la critica radicale della democrazia politica, che noi sapevamo essere l'unica accettabile via di uscita dal fascismo e l'unico modo di creare qualcosa di decente in Italia, ma di cui percepivamo tutti i limiti. In Gobetti il disprezzo per la democrazia parlamentare era molto forte e noi lo abbiamo bevuto tutto. Era una posizione che, come ho già detto, veniva in parte dal pensiero di Mosca, che, appunto, con la critica alla democrazia e con la teoria delle élite aveva detto delle cose straordinariamente intelligenti.

Le teorie di Mosca hanno avuto però due sviluppi completamente diversi: uno di destra, nel senso di Oriani e del fascismo, ove l'unica alternativa alla democrazia rappresentativa era la forza, l'autoritarismo, e l'altro di sinistra, e penso a Gobetti e a Dorso, ove l'alternativa era invece la rivoluzione. L'idea che il fascismo fosse espressione non tanto del grande capitale, quanto della piccola borghesia che riproduce se stessa continuamente in forme diverse, restando sempre la stessa, meschina, chiusa, incapace di solidarietà vera, spingeva Gobetti e Dorso, a sostenere la necessità di una rottura rivoluzionaria. Che cosa poi dovesse contenere questa rivoluzione nessuno, però, l'ha detto. Ecco: noi abbiamo preso queste due cose da Piero Gobetti e su queste due cose noi, ossia il Partito d'Azione, siamo stati sconfitti. Ci siamo dovuti accorgere tra il '43 e il '46 che queste due cose non funzionavano.

Vittorio Foa




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