La Stampa, 20-04-2001
Il vero senso della Rivoluzione Liberale
Norberto Bobbio
La Rivoluzione liberale è una analisi amara della crisi in cui versano i partiti tradizionali in Italia: dai liberali storici, che non hanno adattato la vecchia dottrina ai tempi nuovi ed alle mutate condizioni della lotta di classe, ai popolari che non hanno mai avuto una dottrina originale; dai socialisti per la loro impotenza rivoluzionaria ai comunisti che oscillavano tra ideologia libertaria e pratica burocratica; dai nazionalisti per la loro vuotaggine e incoerenza dottrinale, ai repubblicani devoti ad un Mazzini ormai inattuale ed intraducibile in linguaggio moderno. Al di sopra delle formule e dei programmi dei partiti, ormai svuotati dal fascismo trionfante, egli ribadiva il proprio concetto della rivoluzione liberale.
Che cosa intendeva con questa espressione? Voleva dire che l’Italia avrebbe dovuto passare attraverso un rivolgimento innovatore per liberarsi definitivamente dalla impotenza dei partiti tradizionali che l’aveva condotta alla reazione fascista; ma, nello stesso tempo, questo rivolgimento doveva ispirarsi agli ideali perenni della dottrina liberale. Quando Gobetti parlava di liberalismo intendeva riferirsi non ad una determinata teoria dello Stato, a quella teoria dei limiti del potere statale che era stata elaborata dai costituzionalisti inglesi e francesi, ma ad una concezione globale della vita e della storia, a quella concezione secondo cui la storia è il teatro delle lotte tra gli uomini, e solo nell’antagonismo degli interessi, nell’antitesi delle forze politiche, nel dibattito delle idee, risiede la molla della civiltà e del progresso: in questo senso una rivoluzione non può non essere liberale, proprio perché è nella natura di ogni rivoluzione, a qualunque ideologia si ispiri, il fare scoppiare conflitti latenti, esasperare gli antagonismi, liberare forze nuove capaci di rinnovare la lotta politica. Per Gobetti anche la rivoluzione russa, come è noto, era una rivoluzione liberale. Ogni rivoluzione è liberale in quanto liberatrice. Una rivoluzione non liberale non è rivoluzione, ma reazione, controriforma, controrivoluzione.
Da questa concezione generale della storia Gobetti traeva il suo ideale morale che era, ancora una volta, un ideale di libertà. Il liberalismo era per lui, come per Croce, oltre che una concezione della storia, un ideale morale. Tra i due valori supremi cui tende la società politica ben ordinata, la libertà e l’uguaglianza, Gobetti dava la preferenza al primo: in ciò era schiettamente liberale nel senso classico (e vorrei dire perenne) del liberalismo. Criticando la dottrina mazziniana, e con questa ogni forma di democratismo astratto che pregia sopra ogni cosa l’eguaglianza, diceva che «il problema del movimento operaio è problema di libertà e non di eguaglianza sociale».
Questa concezione generale della storia e questo ideale morale avrebbero dovuto prender forma concreta in istituzioni economiche e politiche ispirate ai principi della responsabilità individuale, della spinta dal basso, della spontaneità creatrice: in economia Gobetti non rinunciò mai agli insegnamenti del liberismo, inteso come dottrina della libera iniziativa economica, che aveva appreso dal suo maestro Einaudi; e in politica riteneva che la forma più alta di reggimento fosse l’autogoverno, di cui vedeva una manifestazione nuova per i tempi nuovi nei consigli di fabbrica.
Se poi volessimo dare un nome a questo afflato di liberalismo perenne che animò le sue opere e la sua vita militante, non potremmo trovare espressione più felice, forse, che le due parole «passione libertaria» che gli erano care e aveva adoperato per indicare il carattere di uno dei personaggi più vivi della sua galleria di antenati, Vittorio Alfieri.
Animato da questa «passione libertaria», Gobetti impersonò in quegli anni lo spirito di resistenza al fascismo, e ne è diventato un simbolo. E poiché il liberalismo di cui si professava seguace era, come si è detto, il riconoscimento del valore della libertà come lievito nella storia umana, il suo insegnamento non è destinato a tramontare. L’esame di coscienza che Gobetti compì in quegli anni rivela la crisi di un’epoca. Da questo esame di coscienza egli traeva la speranza di una nuova età illuministica, fondata sulla vittoria della ragione contro l’istinto, della civiltà contro le barbarie, della serietà contro la retorica.
Che poi questa età della ragione sia venuta, non avremmo davvero il coraggio di affermare. Ma proprio per questo non possiamo dimenticare il messaggio gobettiano, dal quale abbiamo appreso quale sia il valore dell’eresia nella storia.
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